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Luglio 27, 2022

YOLO Economy: raccontare il fenomeno

Sei miliardi di views, stimava Fortune qualche tempo fa. Ma il numero cresce, perché i video si moltiplicano. E i ragazzi che postano loro dimissioni su TikTok, che sia da un negozio Walmart (come Shan Blackwell, la prima a farlo nell’ottobre 2020, in Texas) o da una multinazionale farmaceutica (come Marisa Mayes, che con quel video ha trovato talmente tanti followers da trasformarsi in influencer), sono sempre di più. Gli addii al lavoro sul social più amato dai giovani sono diventati una specie di genere letterario. Ma anche un discreto punto di partenza per guardare più da vicino a un fenomeno grande e complesso: la Great Resignation, l’era delle Grandi Dimissioni.

I lavoratori che stanno lasciando il loro posto, ormai, sono un esercito. Solo negli Stati Uniti, nel 2021 su 68,9 milioni di cessazioni di rapporti di lavoro, ben 47,4 sono state dimissioni volontarie. I motivi sono vari (stipendi bassi, orari stressanti, burnout da smartworking, ma anche incomprensioni, percezione di non essere valorizzati, scarse prospettive di carriera o semplicemente la scoperta che interessa di più altro nella vita), ma il dato è imponente: 130mila resignations al giorno. E tante altre in programma, se è vero che almeno il 40% dei lavoratori vorrebbe cambiare nei prossimi 18 mesi. In Europa l’onda è più lieve, ma simile. Con l’Italia, in qualche modo, in scia: il Ministero del Lavoro nel quarto trimestre 2021 ha registrato 166mila dimissioni in più rispetto allo stesso periodo 2020 (+42,3%). Tra aprile e giugno, il picco era ancora più alto: +43,7%.

Una mezza rivoluzione, insomma. I giornali – e non solo – la chiamano “Yolo Economy” (“You Only Live Once”): «Si vive una volta sola», e quindi un cambiamento d’epoca come quello segnato dalla pandemia per molti è diventato l’occasione per rimettere in discussione uno dei perni fondamentali su cui ruotano tempo, denaro, aspettative: il lavoro. È qualcosa di inatteso (almeno in queste proporzioni), difficile da interpretare, ma sicuramente capace di spiazzare – e far soffrire – molte aziende. Qualcosa che va letto e capito.

E il primo fatto da capire bene è che il fenomeno non è uguale ovunque. «In Italia, per esempio, i dati smentiscono un po’ l’idea dell’effetto “cambio vita”», dice Luca Pesenti, sociologo, docente di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano: «Da noi il fenomeno è trainato molto dall’edilizia, che in questo momento viaggia a mille. E offre aspetti che vanno interpretati, perché la parte più rilevante delle dimissioni, per ora, riguarda le professioni non qualificate – ristorazione, pulizie, bidelli – o quelle sanitarie, su cui giocano due anni pesantissimi. In altri campi, il turn-over dipende più che altro da un mercato del lavoro che, dopo essere rimasto bloccato per mesi, si è rimesso in movimento».

Un dato confermato da Paola Vezzaro, Talent Director Global Regions di Engie, multinazionale francese dell’energia. Dal suo osservatorio che le permette di supervisionare una platea di 150mila dipendenti nel mondo, osserva che «la Great Resignation è molto forte nei mercati dove c’è più dinamicità, come gli Usa, mentre in Europa è a macchia di leopardo. Ma il cambiamento c’è. E secondo me è legato soprattutto a due fattori: ci sono persone che hanno riflettuto sulla loro vita e hanno scelto di cambiare, e ce ne sono altre che cambiano perché nel frattempo è cambiata l’azienda. Da noi, per dire, siamo passati da una fase in cui ai manager era richiesta più autonomia decisionale a un momento in cui prevale l’execution di direttive centrali. È un altro assetto, richiede un altro modo di fare. Può essere che qualcuno decida di cambiare».

Se il secondo caso dipende da fattori contingenti e dal mercato, a interrogare di più è decisamente il primo. Perché indica, appunto, che è in atto un ripensamento del lavoro, importante. Le testimonianze, ormai, sono tante e trasversali. Su siti e giornali si possono leggere intere raccolte di “Quit Diaries”. Prendete Valentina Aversano, social media manager, intervistata da Repubblica: «Per nove anni ho fatto un lavoro che amavo così tanto da non farmi vedere le cose che andavano migliorate», racconta. Lavorava nella comunicazione di una casa editrice, «e questo voleva dire stare sempre al telefono, connessa 24 ore su 24, senza sabati o domeniche». Quando il Covid ha fermato il mondo «e noi siamo arrivati nelle camerette dei nostri studi improvvisati, in case che magari non prevedevano questi spazi, è successo che mi sono ritrovata da sola. Io, il mio computer, il mio telefono e un lavoro che era moltiplicato ancora di più». Risultato: «Ho iniziato a provare un forte malessere che poi è aumentato nel tempo». All’ennesima riunione via zoom in cui le veniva da piangere, ha capito che «dovevo dire basta e riprendermi uno spazio di vita diverso». Si è dimessa, è diventata freelance e ora, dice al quotidiano, «ho recuperato uno spazio per me, per la mia famiglia, per i miei affetti».        

«Quando nella vita succedono fatti dirompenti, in qualche modo sei spinto a fermarti e a pensare: sia alle scelte che hai fatto, che al futuro», osserva Katia Da Ros, amministratrice delegata di Irinox, azienda veneta che produce abbattitori di temperature (320 dipendenti e 60 milioni di fatturato e tre stabilimenti in provincia di Treviso), e neo-vicepresidente di Confindustria: «E di solito, più l’evento è traumatico, più la spinta è forte». Con il Covid è successo esattamente questo: «È stato un momento di grande discontinuità non solo per chi lo ha vissuto in prima fila, come i medici, ma per tutti. Il fatto di essere isolati ha fatto sì che la nostra esperienza quotidiana sia cambiata».

Soprattutto, però, la pandemia «ha dato alle persone tanto tempo per stare da soli e riflettere: è un’opportunità che non capita spesso nella vita, ma quando succede produce degli effetti. E il fatto che sia capitata a tante persone contemporaneamente fa sì che questi effetti siano molto più visibili».

Uno scossone che ha rimescolato le carte, quindi. E ha fatto emergere fattori che prima erano meno considerati. «Soprattutto i giovani, oggi, sono più propensi a cambiare quando vedono che l’azienda non è in linea con i propri valori», dice la Vezzaro: «A differenza delle generazioni precedenti, che erano orientate a entrare in un posto e starci il più a lungo possibile, hanno meno certezze davanti. E quindi si lasciano guidare di più dal loro desiderio, dal voler fare certe cose, oltre che dal benessere».

Ecco, forse, il punto da guardare con più attenzione. Lasciare un posto di lavoro, soprattutto se non si ha un’alternativa concreta (è la condizione di oltre un terzo degli interessati), è sempre un taglio, una cesura. Indica qualcosa che non va, almeno nella percezione dell’interessato. È mancanza di qualcosa. Ma non è detto che tutto ciò sia solo un fattore negativo.

Non sempre le dimissioni sono “un passo indietro”. Al contrario, molto spesso sono un atto creativo. Un momento in cui il soggetto si prende un rischio, accetta una sfida, mostra disponibilità reale al cambiamento. In fondo, sfoggia asset preziosi – e abbastanza rari – di quello che normalmente definiamo “capitale umano”.

«La Great Resignation nella maggior parte dei casi non è una scelta di necessità: è aspirazionale», osserva Roberto Ravagnani, Equity partner di Key2People e Board Member per IIC Partners: «È un atto di libertà. Ma è anche, appunto, l’assunzione di un rischio, un momento in cui il lavoratore diventa in qualche modo imprenditore di se stesso. Guardi, la situazione di oggi mi ricorda una cosa che ho vissuto anni fa, tra il 2008 e il 2012. Ero in Spagna, come direttore del personale di Rcs-Recoletos. In un Paese con la disoccupazione al 25%, debito alto e in mezzo alla crisi globale dei subprime, mi è toccato negoziare con i sindacati più di un piano di ristrutturazione. Bene, ogni volta proponevo di farlo precedere da una finestra di uscite volontarie. Non ci facevo grande affidamento, in quella situazione. Invece alla fine non c’era quasi bisogno di licenziare, perché un sacco di gente coglieva l’occasione per fare scelte analoghe a quelle di oggi. Anche in condizioni precarie, c’era l’idea di rischiare, di investire su di sé».

Secondo Ravagnani, oggi bisogna partire da un dato: «Le motivazioni delle persone che vogliono andarsene sono molto più complesse e più elevate di ciò che pensiamo. E quindi non c’è una killer application che risolva il problema. La leva dei soldi è importante, ma da sola non basta. La qualità della vita nemmeno. Il purpose, evitare una toxic culture… Sono tutte cose che contano, ma non spiegano tutto. E quindi non puoi mai affrontare la questione solo su un piano». Di sicuro, però, c’è un fatto: «Quello che tanti dipendenti ci stano comunicando, in molti modi, è che vogliono essere più coinvolti».

Se è così, il fenomeno della Yolo diventa altro rispetto a tante letture che se ne danno, basate in buona parte sull’aspetto problematico. È anzitutto una grande opportunità non soltanto per rivedere alcuni snodi del rapporto azienda-lavoratore, ma per un vero value reframing, una rivalutazione complessiva del lavoro e del suo scopo. Non a caso, c’è chi preferisce parlare di Great Reimagination, piuttosto che di Resignation.

«La riflessione generale ha portato a una domanda più profonda sul lavoro: non solo sulle condizioni, ma sul valore di significato», dice la Da Ros: «In una situazione così, uno rivede i suoi valori di fondo: se il contesto lavorativo in cui spende buona parte della sua giornata non li riflette, si crea un cortocircuito».

Non è un cortocircuito che si chiude concedendo ai lavoratori qualche benefit in più o dosando le quote di smartworking. «Sull’impatto reale del lavoro a distanza non abbiamo ancora studi accademici approfonditi», osserva Pesenti, che all’argomento ha appena dedicato un libro (Smartworking reloaded, Vita e Pensiero) scritto a quattro mani con Giovanni Scansani, «ma è evidente che il fenomeno pesa. Solo che lo fa in due direzioni, non in una. Da una parte c’è chi ne ha scoperto le comodità – la conciliazione tra vita e lavoro, il benessere, i risparmi di tempo e via dicendo –, e non è più disposto a rinunciarvi. Se l’azienda impone un ritorno in ufficio tout-court, può diventare un motivo per andarsene».

Dall’altra, però, c’è un fenomeno opposto: l’effetto esaurimento. «C’è tanta gente che ancora oggi, dopo due anni, passa 4-5 giorni a lavorare in casa, davanti a un pc, e non ne può più. Gli mancano i colleghi, il contatto umano. Non accetta di proseguire in un contesto che sceglie di rimanere al cento per cento remotizzato. Se avessimo dati più fini, potrei dirlo con più evidenze: ma credo sia evidente che una parte delle Grandi dimissioni sia dovuta a questo».

C’è chi chiede più lavoro da remoto e chi ne vorrebbe meno, quindi. Esigenze che non sempre collimano con il modo in cui le aziende si stanno riorganizzando. Aggiungeteci che tante stanno sfruttando l’occasione per ridimensionare i costi, tanto più in un momento di crisi energetica, e si creano condizioni che rendono il tutto troppo complesso per trovare ricette semplificate.

«Parlo per me, da amministratore delegato», dice Walter Ruffinoni, Ceo di NTT DATA Italia, la multinazionale giapponese al nono posto nel ranking globale dei fornitori di servizi It, con 22 miliardi di fatturato e 138mila dipendenti (di cui 5300 in Italia). «Ma all’inizio della pandemia avevo una grande domanda: l’azienda ce la farà? Poi è seguito il momento in cui ci siamo resi conto che sì, ce la faceva: si poteva gestire anche così, con la gente a lavorare da casa. Ora siamo nella terza fase: bisogna capire qual è la soluzione ideale. Perché è evidente che non è “tutti in ufficio” né “tutti a casa”. Bisogna immaginare nuovi modelli che coniughino i due aspetti, ma soprattutto che abbiano uno sguardo più ampio».

E il motivo è semplice. «Non dobbiamo mai dimenticarci un dato: il lavoro è relazione, perché l’uomo è relazione», osserva Pesenti: «La stoffa stessa del lavoro è fatta di rapporti che non sono sostituibili dal remoto. Il digitale è uno strumento ottimo e in certi casi necessario, ma toglie di mezzo quella che io chiamo la “parte interstiziale del lavoro”, ovvero tutti quegli spazi in cui spesso avviene l’innovazione: la chiacchiera con il collega, la battuta imprevista, l’idea che nasce da un dialogo casuale. Un capitolo del nostro libro si intitola “A pranzo con Steve Jobs”: lui diceva spesso che molte delle idee migliori le aveva avute a tavola con i colleghi. E poi, pensi ai giovani. Io ne conosco alcuni che hanno finito l’università e hanno iniziato a lavorare stando 5 giorni su 5 alla stessa scrivania sulla quale fino a poco prima scrivevano la tesi: quella di casa. Sono sfiniti, e hanno ragione: un ragazzo non può imparare un lavoro da remoto. Ha bisogno di entrare in relazione con un contesto di norme, comportamenti, stili…».

I lavoratori, insomma, chiedono modelli di impresa diversi. Più «relazionali» e meno «transazionali», come osserva lo stesso rapporto McKinsey («se al lavoratore che pensa di andarsene offrite solo soldi, gli state dicendo implicitamente che il vostro rapporto con lui riguarda solo quelli…»). Che implicazioni ha?

«Bisogna tenerne conto e attrezzarsi di conseguenza», dice Ravagnani: «Soprattutto in un contesto sempre più ibrido, fatto di presenza e distanza, dove certe relazioni vengono meno. È paradossale, ma conosco aziende in cui il lockdown ha messo in crisi tante abitudini proprio perché per dna sono molto relazionali. Non avevano meccanismi artificiali di creazione di socialità, era tutto basato sui corridoi e gli incontri: vieni qui, assorbi, respiri e pian piano diventi parte di questa azienda. Venendo meno queste dinamiche, i nuovi assunti hanno fatto una fatica enorme». Risultato: adesso questi stessi meccanismi «vanno anche progettati e gestiti, perché non avvengono solo in maniera autonoma. E il manager deve dedicare più tempo non solo agli aspetti transazionali, (cosa mi aspetto da te, obiettivi, regole), ma anche ad elementi più simbolici e di relazione».

In qualche modo, anche questa attesa dei lavoratori è un aspetto da valorizzare.«Si tratta di scelte», dice la Vezzaro: «Fare quello che si desidera, occuparsi di temi che interessano di più. Non a caso, dal mio osservatorio vedo un altro fenomeno, abbastanza diffuso: persone che scelgono passaggi di carriera in senso non verticale o orizzontale, ma su percorsi che apparentemente sono un passo indietro. Non so, faccio il manager del marketing e mi sposto su una posizione più bassa nel settore delle rinnovabili perché voglio capire meglio come funziona quel settore, o cose del genere». In senso tecnico, sarebbe un downsizing: «In realtà sono passi consapevoli, fatti con criteri diversi».

Ruffinoni ricorda che sette anni fa partecipò a Orientagiovani, la fiera che connette studenti e aziende: «Ai ragazzi dissi: “Guardate che voi arriverete nel mondo del lavoro in un momento incredibile, perché potrete veramente scegliere dove andare a lavorare. Però dovete guardare i valori dell'azienda, scegliere in base ai sistemi valoriali. Perché poi in ufficio ci passerete la maggior parte del vostro tempo, e stare in un ambiente che ti arricchisce, in cui partecipi alla realizzazione di un sogno, che ti permette di sentirti parte di una community, è molto più gratificante”. Beh, è quello che sta succedendo». Nessuno aveva previsto che la spinta sarebbe arrivata dal Covid, ma lo scenario è cambiato. Ed è tutto in movimento.

«La verità è che abbiamo un’occasione imperdibile per ripensare qualcosa che è ancora organizzato in forma ottocentesca», dice Pesenti: «Ma per riuscirci, serve un cambiamento culturale. Prima dello smartworking, c’è bisogno di smart manager». Perfetto. Ma cosa vuol dire? «Per esempio, leader aziendali che non abbiano più la preoccupazione del controllo fisico delle persone, ma sappiano trasformare il lavoro in cicli, fasi, obiettivi e poi siano in grado di misurarli».

Ravagnani la chiama «una capacità di project management più estesa: anche se il lavoratore fa un’attività routinaria, da manager devo concepire il suo lavoro come se fosse un microprogetto. E devo delegare di più: visto che non ti ho sempre sotto i miei occhi, e che passi una parte significativa del tuo tempo lontano da qui, devo essere molto chiaro nel dirti cosa mi attendo da te. Per alcuni può essere semplice, per altri serve uno sforzo di esplicitazione delle attese». In più, c’è un ultimo aspetto: «La capacità di essere un po’ “capo tribù”. Di incidere su rituali, simboli, socializzazione, sui meccanismi che creano un senso di squadra e di scopo. Non sono più così naturali, ma sono importanti, più di prima».

In fondo, è la prima regola aurea per un’azienda: «Prendere atto dei cambiamenti non significa subirli», dice Ravagnani. Anzi. Occorre muoversi, per «riattivare» i propri dipendenti. Ma come? «Bisogna creare nuovi metodi di ingaggio. E lavorare sulle aspettative». Come vedremo nel prossimo articolo.

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