Se la situazione è quella descritta nel primo articolo, che cosa dice – e chiede – alle aziende? Non è una domanda scontata: spesso il problema è proprio un gap di comprensione di cosa ci sia in gioco davvero. «Le corporation faticano ad affrontare il problema per una semplice ragione: non capiscono veramente perché i loro dipendenti se ne vanno. E piuttosto che prendersi il tempo di investigare le vere cause, provano a mettere toppe per riempire il buco: aumenti di stipendio, bonus e quant’altro», si legge sul sito di McKinsey in un lungo report dedicato alla Yolo (e dal titolo significativo: Great Attrition or Great Attraction? The choice is yours). Se la Great Resignation non è solo una questione di riorganizzazione di lavoro e stipendi, provare a rispondere usando solo la leva dei benefit o dello smartworking (come hanno fatto nei mesi scorsi soprattutto le major americane) non porta lontano. Bisogna scavare più a fondo.
«La pandemia ha accelerato una serie di fenomeni che già erano in corso da tempo», dice Walter Ruffinoni, Ceo di NTT DATA Italia: «Come ha scritto Domenico De Masi, il sociologo, ci siamo trovati a essere parte di quello che probabilmente è il più grande esperimento nella storia delle grandi aziende: senza nessuna pianificazione, senza preparazione, da un giorno all'altro ci siamo trovati a lavorare in un modo completamente diverso». È vero. E di fronte a una rivoluzione del genere è molto facile che la prima reazione sia una forma di resistenza interna, più o meno consapevole. Ruffinoni la chiama «resilienza negativa», ovvero l’altra faccia possibile di una delle parole che stiamo sentendo più spesso: «Siamo tutti esseri umani. È normale che la prima modalità di reagire a una situazione nuova sia l’autoprotezione». Ci si adatta, ed è un bene. Ma a volte questa tendenza diventa, appunto, resistenza. «Io lo dico sempre: spero che la resilienza non ci riporti al punto in cui eravamo».
È la prima sfida: siamo davvero disponibili a cambiare? E come? «Guardandomi intorno, è una delle cose che mi hanno sorpreso di più», dice Paola Vezzaro, Talent Director Global Regions di Engie: «Ha presente il film Don’t Look Up, con il meteorite che sta per distruggere la Terra e mezzo mondo che nega il problema? Ecco, in questo momento è facile trovare due atteggiamenti diversi, anche nella stessa azienda: c’è una parte che prova a gestire il cambiamento e un’altra che fa un po’ finta che non sia successo nulla, e cerca di fare in modo che le cose tornino come erano prima».
Come si supera questa resilienza negativa? «Forse occorre premettere una cosa, perché c’è il rischio di un malinteso sul ruolo che ha il lavoro nella vita delle persone», osserva Cristiano Garocchio, Partner Digital Innovation & Media di Key2People: «Sempre più spesso lo vedo interpretare come un contesto da cui trarre solo soddisfazione. Non voglio dire che non sia così, chiaro. Ma c’è una componente abrasiva, di fatica e problematicità, che vi rimane insita, e bisogna tenerne conto. Il lavoro può contribuire alla soddisfazione personale, ma non possiamo aspettarcela da lì». È un dato che di fronte ai cambiamenti – e alle difficoltà che implicano – va tenuto presente. «Detto questo, essere disponibili a cambiare è frutto soprattutto di due cose», aggiunge Garocchio: «Primo, una condivisione. Un passo nuovo non può essere fatto né comunicato a freddo: deve essere preparato. Deve dare a ognuno la possibilità di capire che cosa di sé, del suo ambito, evolverà nel tempo. E la seconda condizione è che sia percepito come un obiettivo non finalizzato solo al valore dell’azienda, ma ad accogliere le necessità di un mercato che cambia. Non è un capriccio o una strategia di chi guida, ma un’esigenza posta dal contesto».
Il contesto. Esterno, e interno. Spesso ci si muove senza tenerne conto fino in fondo. «A volte si agisce senza attivare l’ascolto. Che, invece, è la necessità più grande, adesso», dice la Vezzaro: «Bisogna decidere se seguire solo una logica top-down, in cui chi guida non ascolta, fa finta di niente e prova ad andare avanti come se tutto fosse una macchina, o se, al contrario, dare spazio alle richieste e alle necessità nuove che emergono dal basso. Solo se scelgo questa seconda strada posso sviluppare soluzioni che danno più equilibrio all’azienda».
Più ascolto, quindi. Perché questa riformulazione di valori e priorità, questa domanda sul significato stesso del lavoro, interpella anche l’azienda. «Ed è importante creare le condizioni per un dialogo aperto e sincero da entrambe le parti, azienda e lavoratori», dice ancora la Vezzaro: «Se in passato da parte di un selezionatore c’era più una logica di vendita, per cui ti racconto le cose belle che facciamo, le opportunità che offre il lavorare qui e via dicendo, ora è fondamentale che si ascolti: bisogna capire che cosa questa persona sta cercando, e dirgli in maniera molto onesta cosa ci può essere qui e cosa no». È un primo punto sensibile per un’azienda che vuole stare di fronte al fenomeno delle Great Resignation sfruttandone le potenzialità: rimodulare il lavoro di chi si occupa di Risorse Umane. Spesso è molto sbilanciato sulla selezione di chi deve entrare rispetto allo sviluppo del benessere di chi c’è già.
«Quando è scoppiata la pandemia, la prima cosa che ho fatto è stata incontrare i responsabili HR», dice Ruffinoni: «Gli ho detto: “Voi state per assumere un ruolo cruciale, perché nessuno ha le risposte giuste. Non sappiamo come funzionerà il mondo fra due anni. Ma fra sei mesi sia voi che io, come amministratore delegato, dovrò guardare per capire dove stiamo andando”. Ed è così. Perché nel frattempo abbiamo assistito a quella che io chiamo l’esplosione delle preferenze e della flessibilità. Abbiamo capito che si può lavorare da qualsiasi location, cosa che prima era impensabile soprattutto in Italia. Sono saltate le demarcazioni tradizionali: “Vado in ufficio cinque giorni su cinque, 9-18, e poi stop”. C'è una commistione diversa tra lavoro e vita privata. E il fatto che le persone abbiano potuto ripensare le loro priorità ha scatenato un effetto di problemi, richieste e esigenze».
Ecco, di fronte a questa «esplosione delle preferenze» e al rimescolamento di paletti e priorità, l’azienda non può più offrire solo beni, ma valori. È interpellata a questo livello. E spinta a farsi domande di fondo, di quelle che a volte si rischia di dare per scontate. Prima fra tutte: che azienda siamo?
«Farsi questa domanda vuol dire avere gli occhi aperti al contesto: a capire in che modo il servizio o il prodotto che offri e soprattutto l’abitudine di chi lo riceve è cambiata», dice Garocchio: «Alcuni osservatori propongono di definire quella attuale la “generazione Prime”. La gente si adegua agli standard di Amazon Prime: tutto subito, al prezzo migliore e senza limitazioni. Se c’è questo tipo di evoluzione nel mercato e tu, azienda, non lo recepisci come tale, il rischio di restare tagliato fuori è altissimo. Quindi serve una grande attenzione a come evolve il tuo interlocutore e il massimo sforzo per poterlo assecondare». E anche qui, l’interlocutore non è solo quello esterno. «Per noi è la questione più importante», dice Ruffinoni: «Nel 2013, quando ho preso la responsabilità come Ceo, ho lanciato un piano a cinque anni, “Horizon 2018”. C’era una frase significativa: “Siamo l’azienda che vogliamo costruire”. C’era l’idea di creare un senso di appartenenza, qualcosa che andasse oltre il raggiungimento di obiettivi o il task che capita a ciascuno. Ci siamo dati come scopo comune il sentirsi parte di una trasformazione. Oggi credo che siamo di fronte a questa necessità, ancora più acuta. Abbiamo una filosofia un po’ olivettiana che punta a far crescere le persone. Parto dal principio: “Persone migliori, risultati migliori”. E questo vuol dire contaminare, stimolare, arricchire. E anche puntare più sulla fiducia, e meno sul controllo».
«Io penso che le aziende che faranno meglio sono quelle che riescono a lavorare su questi temi non in rincorsa, ma in anticipo», dice Katia Da Ros, amministratrice delegata di Irinox: «Perché sono temi fondanti. Vede, di fondo questa pandemia ha mostrato che le persone hanno bisogno di capire che ci sono valori saldi, che non cambiano: dei punti di certezza. E in un’impresa i valori di fondo non devono essere tanti, ma veri. Chi lavora con te deve vedere che tu li vivi fino in fondo. Deve accorgersi, per esempio, che assieme al senso della responsabilità, alla base del lavoro ci sono fiducia e trasparenza». Fiducia, di nuovo. È una parola chiave. Perché è biunivoca (relazionale, appunto): dell’azienda nel lavoratore, e viceversa. E non è scontata. Se si chiede alla Vezzaro una definizione del wellbeing in azienda oggi, la risposta va proprio in questa direzione: «È permettere alla persona di non aver paura di esprimersi». Di fidarsi, insomma. Perché si condividono certi valori. Alla fine, la risposta più sensata alla Great Resignation è proprio rafforzare questo legame. Che è con la singola persona, non con la “forza lavoro”.
«Secondo me occorre ragionare su due livelli», dice ancora Garocchio: «Occorre anzitutto sincerità. Un certo modello di wellbeing che troppo esplicitamente sottende la convergenza su obiettivo aziendale oggi dalle persone è letto come opportunistico. I bellissimi Friday Roof BBQ costringono il dipendente a stare in ufficio il venerdì fino alle otto di sera. Le colazioni con venti tipi di muffin serviti dalle 6:30 alle 7:30 sono fatte per portarti sul posto di lavoro due ore prima… Sono meccanismi ancora apprezzati, ma i dipendenti hanno cominciato a distinguerli come finalizzati anzitutto agli interessi dell’azienda. Serve un’autentica attenzione al concetto di equilibrio». E il secondo livello? «È difficile pensare oggi a pacchetti di wellbeing che riguardino solo l’interessato. Vanno proposti per migliorare la condizione dell’intero nucleo familiare, o comunque la cerchia di riferimenti più stretti. Non è possibile pensare a una persona estrapolata dal contesto normale».
I modi? Tutti da vedere. A volte possono prendere forme più classiche, vicine a quelle tradizionali. Katia Da Ros elenca le iniziative che sono partite nella sua Irinox negli ultimi due anni: «Abbiamo iniziato un’attività di coaching e supporto psicologico, per metterci in ascolto delle persone a tutto tondo: quando uno viene in ufficio si porta dentro tutto, non è che ha due identità e se ne porta dietro una… Abbiamo svolto una ricerca interna per capire a che punto siamo con la parità di genere. Abbiamo organizzato momenti di formazione e lanceremo attività di volontariato per la comunità. E abbiamo cercato di capire tutti insieme come possiamo rendere il lavoro più ecologicamente sostenibile, offrendo alle persone degli obiettivi su cui impegnarsi per abbassare l’impatto ambientale. Il parco macchine è diventato ibrido, ci sono postazioni green per ricaricare le auto in azienda… In tutto sono partiti 16 mini-progetti. È un tema molto sentito: il fatto di lavorarci qui e insieme, non solo a casa e nel privato, dà un significato ulteriore al lavoro. E se c’è una cosa diventata evidente nel post-Covid è che il nostro ruolo di imprenditori va oltre le questioni economiche: ci chiede di dare significati».
Altre volte, questa risignificazione del lavoro avviene attraverso strade meno battute. «Ho avuto la fortuna di sperimentare in azienda dei momenti molto forti di collective intelligence, di un ascolto comunitario che ha introdotto meccanismi di gestione differenti», dice la Vezzaro: «Per esempio, per scegliere il responsabile country di un certo business. Dove c’era una maturità e una volontà delle persone di discutere, ascoltarsi e fare un percorso collettivo, noi della HR abbiamo accompagnato questo metodo che, alla fine, ha portato a una scelta del capo da parte del collettivo. Una logica più democratica, insomma. Ha richiesto più tempo e investimenti di energie da parte dell’azienda. Ma ha portato a un risultato di successo: oltre alla nomina, ha fatto emergere altri elementi interessanti. E ha fatto nascere un comitato che continua a mantenere il dialogo capo-dipendenti». Chiaro che sono tutti elementi di attrazione per chi pensava di andarsene o per chi vorrebbe arrivare.
Ma appartiene a un nuovo wellbeing aziendale anche immaginarsi formule come quelle di Ntt-Data. «Comunque vada, una grande sfida dei prossimi anni è trovare il giusto rapporto tra presenza e remoto», dice Ruffinoni: «Io stesso non tornerò più a frequentare l'ufficio cinque giorni su cinque: se devo chiudermi in sala riunioni per fare una call con gente che se ne sta a Madrid o a Roma, lo faccio da casa. Se vengo qui, devo riprogettare una mia agenda per stare con le persone. Ma il futuro in remoto, da un punto di vista di relazione, è pericolosissimo, perché rischia di diventare arido e quindi distruggere il valore anche sociale delle risorse». E quindi? «Qui, per esempio, abbiamo fatto un esperimento con Elis, un’associazione di imprese. Le abbiamo chiamate “palestre relazionali”: luoghi in città dove possono andare a lavorare i dipendenti di aziende diverse. Si incontrano lì, e oltre alla postazione di lavoro ci sono incontri, c’è networking, contaminazione in senso positivo. Crei un effetto di fioritura, di cura delle relazioni e di confronto, che è un valore aggiunto enorme». Così come è un valore aggiunto – e non solo per l’impresa - proporre come volontariato lezioni di coding nelle scuole primarie della zona, per avvicinare ragazzi e ragazze al mondo della tecnologia («nessuno ci pensa, ma è uno sbocco a cui la scuola offre poche prospettive»), o cose simili.
Rispondono alle esigenze valoriali interne all’azienda. Ma offrono prospettive anche a quella che Katia Da Ros chiama «un nuovo sentiment che sta pervadendo le imprese: l’idea che un’azienda esiste per soddisfare i suoi stakeholder non solo in termini economici, ma in maniera più ampia. Sempre di più le persone cercano nel lavoro dei significati, e nell’impresa un’esperienza significante. Che vuol dire: io lavoro non più solo per i soldi, ma perché so che con il mio lavoro e la mia impresa ho un impatto sulla società, sull’ambiente… È un grande trend: c’è quasi più orgoglio a dire “ho un impatto sulla società” piuttosto che “faccio del bene agli azionisti”. Ha un senso diverso».
È una chance, insomma. Reale. «Ecco, su questo non so quanto gli imprenditori siano già recettivi: la crisi e la pandemia hanno portato molti a irrigidirsi e chiudersi in difesa», dice Garocchio: «Ma indubbiamente serve uno sforzo per cambiare». Serve giocare in attacco.