In inglese li chiamano pre-loved, «già amati» da qualcuno. Certo, suona meglio che «di seconda mano»: ma non è solo una questione di marketing. Ci sono casi in cui certi oggetti finiscono davvero per essere così: amati, valorizzati, cioè guardati per il valore che possono ancora avere e generare, guadagnandosi una seconda vita e magari aiutando qualcuno a migliorare la sua, di vita. In fondo, “I was a Sari” è nata così: dallo sguardo di una persona che ha iniziato a vedere in quegli abiti bellissimi e colorati, ma già smessi dalle donne di Mumbai, qualcosa d’altro. Una vita possibile, un valore più grande.
Quel qualcuno è Stefano Funari, 56 anni, brianzolo doc trapiantato in India nel 2011. Ci è arrivato con un percorso singolare, fatto di svolte decise. Un percorso che, a rileggerlo ad oggi, dice tante cose. Anzitutto, su come si possa cambiare vita anche radicalmente seguendo in maniera altrettanto radicale il proprio desiderio. Desiderio di fare business e insieme di fare del bene, di costruire un percorso innovativo e ricco di soddisfazioni per sé e insieme costruire qualcosa di buono per tutti. Di fare il manager, e poi l’imprenditore, in maniera diversa, dando un significato differente – ma tutt’altro che riduttivo - alla parola “carriera”.
Gran parte della mia vita adulta l’ho passata interrogandomi sul senso di quello che stavo facendo.
Mi piaceva l’idea di diventare un changemaker, un imprenditore sociale.
«È stata una scelta molto meditata, che mi ha richiesto tanti anni», racconta: «Io ho iniziato il mio percorso in Bocconi, come assistente universitario. Ma ho capito in fretta che non era la mia strada». Qualche anno da consulente, poi le vendite, la Svizzera, i primi incarichi da manager, fino a diventare un senior executive in Swisscom (prima come Vice Presidente Business Development, poi come capo della Strategia e della Service Experience, il tutto in pochi anni e con ancora tanto potenziale di ulteriori sviluppi). Lavoro «bellissimo e stimolante», dice. Ma non risolveva la questione di fondo. «Gran parte della mia vita adulta l’ho passata interrogandomi sul senso di quello che stavo facendo». E a un certo punto, da queste domande è emersa una risposta, netta: «Mi piaceva l’idea di diventare un changemaker, un imprenditore sociale». Non come ripiego, anzi. Ma come vocazione, scelta ben precisa, fatta quando le altre porte erano già aperte e le prospettive di carriera avrebbero potuto portare davvero ovunque.
L’India è entrata nel suo orizzonte così. «Quando sono arrivato non avevo le idee chiare su cosa fare. Ho iniziato a lavorare con organizzazioni locali occupandomi di bambini di strada». Esperienza che, dice, «mi ha segnato e insegnato molto: mi ha fatto capire che per creare un impatto sociale non c’è niente di più efficace che lavorare con le comunità, le famiglie. E, in particolare, con le donne: in questo contesto sono l’asse portante».
L’incontro decisivo, però, avviene undici anni fa. E non è con una persona. «Un pomeriggio, mentre lavoravo a un progetto anti-abuso, mi sono trovato per caso in un deposito in cui erano ammassati dei sari, gli abiti tradizionali delle donne di qui». Decine, centinaia di sari. «E lì ho avuto un’intuizione: ho immaginato che quella catasta di tessuti e colori, arrivati alla fine del loro ciclo di vita, potesse diventare un’opportunità per creare valore. Anche sociale».
Un pomeriggio, mentre lavoravo a un progetto anti-abuso, mi sono trovato per caso in un deposito in cui erano ammassati dei sari... Lì ho avuto un’intuizione: ho immaginato che quella catasta di tessuti e colori, arrivati alla fine del loro ciclo di vita, potesse diventare un’opportunità per creare valore.
Lui ne compra una trentina, e comincia a ragionarci. In un viaggio in Italia trova suggerimenti e compagni di strada, tra amici del Politecnico di Milano. E da lì nasce un brand che, oggi, racconta così: «I was a Sari è un marchio di moda sostenibile che produce accessori di abbigliamento utilizzando sari pre-loved, trasformati in prodotti nuovi – borse e t-shirt, ma anche tovaglie, orecchini, pantofole… – grazie ad artigiane indiane provenienti da contesti svantaggiati». Economia circolare pura, insomma. E sviluppo sociale.
Tradotto in numeri, vuol dire un’azienda che in undici anni di vita ha riciclato un milione e 700mila metri quadri di tessuti, ha dato lavoro ad oltre 800 donne, ha pagato stipendi per un milione e mezzo di ore («retribuite equamente, sopra i minimi salariali di legge, in un contesto dove questa cosa non è per niente scontata») e ha partner che vanno da Gucci a Oxfam, testimonial perfetti per chi si muove nell’eco-fashion e, accanto al profitto, mette tra le priorità due fattori. Uno, la sostenibilità: «Come la definisco? La capacità di creare dei prodotti e di svolgere un’attività senza creare un impatto negativo sulle risorse coinvolte». Due, appunto, le persone: «Lavoriamo con donne artigiane che quando iniziano un percorso con noi hanno un livello di competenze medio-basso. Le formiamo, le facciamo crescere. E le portiamo a produrre qualcosa che regga il mercato».
In undici anni di vita ha riciclato un milione e 700mila metri quadri di tessuti, ha dato lavoro ad oltre 800 donne, ha pagato stipendi per un milione e mezzo di ore
Esempi? Tanti. Prendete Sumitra: «Lavora con noi da sei anni. Quando ha iniziato era una casalinga con figli, e mandava avanti la famiglia a fatica. Ha cominciato a collaborare, e quindi ad avere un reddito stabile che le ha permesso di far studiare i figli e di migliorare le proprie condizioni di vita. Poi è diventata una supervisor. E tre mesi fa, assieme a due colleghe, ha dato vita a un’impresa sociale. Oggi è tra i nostri fornitori». Ma vale anche per Rajul, design director. O per Sapna, per Sampada e tante altre donne. Hanno avuto quello che qui, pescando dal cricket, chiamano «the second inning», una seconda opportunità. Che in fondo era il vero obiettivo di Funari, quando ha avviato tutto: «Mi sono sempre interrogato sul senso di quello che stavo facendo: sentivo il bisogno di uno scopo che andasse oltre il profitto. E a un certo punto ho capito che la cosa più importante, per me, era questa: mettere a disposizione le mie capacità per aiutare altre persone, meno fortunate, ad avere una seconda chance».
Nella presentazione di I was a Sari c’è una frase che dice molto: «Dove la maggior parte della gente vede solo delle donne senza istruzione, noi vediamo artigiane di talento che possono disegnare il loro futuro». Non è una faccenda di buonismo, ma una caratteristica dell’imprenditore, dell’uomo di azienda. Da manager, come si fa ad allargare lo sguardo, a vedere quello che gli altri non vedono? «Bisogna cambiare le lenti con cui si guarda al mondo, e quindi alle risorse. Naturali, ma soprattutto umane».
I was a Sari esporta quasi il 100% della produzione in una trentina di Paesi. «Il sari è la nostra materia prima principale, ma lavoriamo con tanti altri materiali. E negli anni abbiamo cercato di rendere i prodotti sempre più sostenibili lavorando pure sul packaging, le etichette, i bottoni». Anche la tecnologia aiuta parecchio: «Le vendite dirette al consumatore tramite l’e-commerce sono diventate un pilastro del nostro fatturato. Prevediamo che nei prossimi 3-5 anni diventeranno il nostro canale più importante». E l’adozione dell’Intelligenza artificiale ha dato un’altra spinta: «Nell’AI abbiamo visto un’opportunità di migliorare tanti processi che possono portare efficienza in tutto quello che facciamo: logistica, design, marketing, comunicazione...». Funari è convinto che sia «ancora presto per dire se l’AI, per le piccole imprese come la nostra, sia più una minaccia o un’opportunità. Però ricordo che tanti anni fa un mio capo mi ha insegnato che la paura non riduce il rischio. Nel dubbio, invece di aspettare abbiamo scommesso».
E il futuro? «Siamo in una fase nuova: sappiamo che per affrontare gli investimenti necessari, servono capitali». E li stanno cercando. «Ma devono essere investitori pazienti che, come noi, valutano l’impatto sociale e ambientale come il principale obiettivo». La bussola rimane la sostenibilità: «Noi restiamo un’impresa sociale e una zero dividend company: siamo un’azienda for profit che alla fine dell’esercizio non distribuisce i profitti, ma li reinveste». Ecco, profitto e impatto sociale: come si combinano? Non c’è il rischio che a volte facciano a pugni? «Sono due dimensioni da tenere assieme. Ma non è così difficile: è proprio una questione di approccio, di darsi degli obiettivi e poi seguirli in modo coerente. Tre anni fa abbiamo partecipato a un progetto dell’Università di Stanford che si chiama Seed, per imprese sociali ad alto potenziale di crescita, e abbiamo costruito un piano di trasformazione triennale per ottenere la certificazione B Corp». All’inizio di quest’anno, ci sono arrivati. Funari ne è orgoglioso, ma anche quando parla di questo usa una parola che spiazza: bellezza. «Per me sta pure in questo: nell’usare una metodologia che considera tutte le aree, dalla governance all’impatto ambientale e sociale, al supporto ai clienti, come framework per migliorarsi sempre».
Bisogna cambiare le lenti con cui si guarda al mondo, e quindi alle risorse. Naturali, ma soprattutto umane.
In attesa dei prossimi passi, parla volentieri anche delle radici. «Qui mi sono sposato ed è nata mia figlia, che oggi ha sei anni, ma il legame con l’Italia resta forte: per me la giornata inizia e finisce guardando le news italiane». Ma come sono l’Italia e l’Europa viste da Mumbai? «Mi pare che ci sia ancora un grande rispetto. A noi, per esempio, si riconosce un patrimonio artistico-culturale enorme. Ma c’è anche l'impressione che su alcune grandi sfide l’Europa stia reagendo in modo un po’ lento. Usa e Cina viaggiano ad altre velocità».
E noi cosa possiamo imparare dall’India? «Io credo di aver imparato la resilienza, la capacità di adattamento, di rialzarsi e ripartire dopo le avversità senza piangersi addosso. Questa è una cosa che mi si presenta tutti i giorni: “Life is beautiful”, non importa quali siano le difficoltà. Poi, fattore che su di me ha avuto un impatto importante, mi ha aiutato ad apprezzare le piccole cose: l’atto di gentilezza, il momento condiviso con i colleghi, la gita sociale… Cose che da noi magari sono scontate o addirittura diventano un peso». E i pesi di qui, quali sono? «Beh, non è mai una passeggiata di salute: i problemi sono tanti… Ma in questi tredici anni non ho pensato neanche per un secondo di aver fatto un errore a venire. Mai. Ero arrivato perché sentivo il bisogno di un cambiamento, e qui ho trovato il mio posto. Ho trovato quel senso che cercavo». Perché spesso è un cambio di direzione che aiuta a trovare il verso giusto, la soddisfazione vera: bisognerebbe tenerne conto, e magari prendere esempio per osare. Anche perché trovare non vuol dire fermarsi: «È un percorso, non è mica finito. Con quello che ho imparato in questi anni, avrei già quattro o cinque idee di altre cose belle che mi piacerebbe fare. Ma non è ancora il momento. Adesso c’è I was a Sari da aiutare a crescere».