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Ottobre 4, 2023

Il leader giardiniere. Lezioni di management da due maestri della musica del '900: Miles Davis e Brian Eno

Nell’iconografia del leader, specie se aziendale, siamo abituati a pensare a personaggi che Max Weber avrebbe definito come dotati di autorità carismatica: dei capi popolo, delle persone capaci di generare una visione e mobilitare intere organizzazioni in modo entusiasmante. Persone che occupano il palcoscenico e brillano di luce propria, animati da un chiaro senso missionario e dall’abilità di realizzare le proprie idee. I verbi che accompagnano questo modello di leadership, non a caso, sono: guidare, progettare, comunicare, motivare.

Se guardiamo ad altri mondi, possiamo però immaginare un tipo di leader diverso e altrettanto, se non più, ispirazionale, magari più moderno e, perché no, “sostenibile”: un leader che invece di apparire lascia che il palcoscenico lo prendano i collaboratori, un leader che invece di dire cosa fare crea le condizioni affinché gli altri trovino la propria via, un leader che invece di progettare un’organizzazione si pone a garante del suo sviluppo armonico ma fondamentalmente autonomo. Insomma, più un maestro zen che un generale d’armata.

Spesso si usa il mondo dello sport e la figura dell’allenatore come metafora della leadership. In questo articolo invece si vuole prendere ispirazione dal mondo della musica, che nella seconda metà del '900 ha prodotto, tra gli altri, due maestri che possono dare più di una lezione agli esperti di management: Miles Davis e Brian Eno. Forse non hanno bisogno di tante presentazioni, ma due parole di contesto possono aiutare.

Il primo, una vera e propria leggenda della tromba, è stato il più grande talent scout della storia del jazz, tanto che tra i musicisti si dice che chiunque abbia avuto la ventura di suonare con lui ha frequentato l' “accademia Miles Davis”. Quasi tutti i più influenti jazzisti di fine secolo sono stati “scoperti” da lui: John Coltrane, Herbie Hancock, Keith Jarrett, Chick Corea, John McLaughlin, Wayne Shorter… ognuno, peraltro, sviluppando uno stile assolutamente unico e differente.

Il secondo, invece, è un raro caso di ibrido tra cultura alta e cultura pop, e un vero e proprio uomo rinascimentale: al tempo stesso compositore, produttore, visual artist, filosofo, ambientalista, politico, accademico. Nel mondo della musica è l’inventore di concetti ormai entrati nel linguaggio comune come “ambient music” (musica di sottofondo che può essere indifferentemente ascoltata o ignorata) o “world music” (musica che mischia suoni moderni con quelli di etnie non occidentali) ma anche colui che ha portato artisti del calibro di David Bowie, U2 e Talking Heads (solo per citarne alcuni) a produrre quelle che unanimemente sono considerate le loro migliori opere, oltreché tra le più significative della musica rock.

Che cosa hanno in comune questi due signori e perché se ne parla nell’ambito del management? La loro caratteristica principale è di essere fondamentalmente più dei catalizzatori e sviluppatori di talento, che non dei compositori o dei virtuosi dei loro strumenti. La loro grande dote è capire come mettere le persone nelle condizioni di oltrepassare i propri limiti e dare il meglio di se stessi. Vediamo un po’ come hanno fatto.

Miles Davis utilizzava un metodo che si potrebbe chiamare “zen” con i propri musicisti. Raramente dava istruzioni precise su cosa e come suonare, ma metteva invece sempre tutti fuori dalla propria zona di comfort, pur in un contesto di assoluta fiducia e possibilità di sbagliare. Herbie Hancock, uno dei più grandi pianisti del jazz, racconta che una volta aveva sbagliato un accordo mentre stava suonando dal vivo con la band di Davis. Quest’ultimo se ne accorse subito ma invece di prendere quell’accordo come un errore si mise a suonare in una nuova tonalità coerente con quell’accordo e in tal modo spinse tutta la band ad adattarsi e alla fine a cambiare la musica stessa, fino a trasformarla in qualcosa di completamente nuovo e inaspettato, anche agli stessi musicisti. Aveva trasformato un errore in un’occasione per introdurre un’innovazione radicale. In modo analogo, a volte smetteva improvvisamente di suonare, per permettere ai suoi musicisti di prendere il proscenio ed esplorare, nel fuoco dell’improvvisazione di fronte al pubblico, fino a dove la loro ispirazione li avrebbe portati. Anche per questo si dice che Miles Davis si riconosce non solo dal suono della sua tromba ma anche da quello dei suoi silenzi. Se tutto questo vi pare assurdo ed esoterico, andate ad ascoltarvi "Kind of Blue" e godetevi la suprema eleganza di quella musica, quasi completamente improvvisata eppure strutturata da una scelta meditatissima di pochissime e semplicissime regole.

Brian Eno invece ha l’abitudine di usare lo studio di registrazione come un tool compositivo, nel senso che chiede ai musicisti con cui lavora di gestire le sessioni di incisione non come un momento in cui cristallizzare le proprie composizioni ma come invece un processo di scoperta e di esplorazione di possibilità a loro stessi sconosciute. È risaputo, ad esempio, che Eno chieda ad ogni musicista di estrarre a caso, all’inizio di ogni sessione, una carta da un mazzo di istruzioni chiamate “strategie oblique” e di attenersi rigorosamente ad esse. Per capirci, le istruzioni possono essere del tipo “prova a fingere”, “usa una vecchia idea”, “lavora ad una velocità diversa” o “considera la ripetizione come una forma di cambiamento”.

Per dare un altro esempio, di seguito sono riportate alcune “regole” che definiscono l’approccio evolutivo di Eno alla creazione artistica:

  • Il compositore è solo colui che fissa le regole, e poi non deve interferire
  • La musica è un processo
  • Adotta la casualità e rifiuta la simmetria
  • Gli ingredienti, il metodo e il processo sono più importanti della execution
  • Il materiale precede la struttura

Di nuovo, se tutto questo vi sembra astratto e astruso, andatevi ad ascoltare capolavori rock come “Heroes” di David Bowie, “Remain in Light” dei Talking Heads o “The Joshua Tree” degli U2, tutte opere di cui è coautore, e poi confrontatele con quelle precedenti degli stessi artisti: sentirete la differenza.

E se ancora non coglieste i parallelismi con i problemi manageriali, forse vale la pena sottolineare le similitudini con i processi di gestione dell’innovazione più diffusi nelle imprese di alta tecnologia, dagli approcci “agili” alle metodologie “generative” (altro termine in pratica coniato da Eno): molte imprese della Silicon Valley in fondo lavorano in modo molto simile. Anche per i professionisti di risorse umane e per i consulenti di cambiamento organizzativo, questi due artisti suggeriscono che per raggiungere un risultato ambizioso, specie in momenti di incertezza, è talvolta più importante selezionare con la massima attenzione le persone, la cultura e le regole organizzative che non definire nel minimo dettaglio processi e Kpi.

Quello che emerge è un approccio fondamentalmente basato sulla fiducia nelle persone: dai loro più spazio, crea un contesto in cui possono esprimersi senza paura e vedrai che daranno il meglio di sé. Tutto questo senza transigere sul livello di qualità richiesto, anzi fissando standard altissimi di ambizione, ma lavorando più sulle variabili di input (la qualità degli ingredienti) che di output (i parametri di prestazione).

E allora che ne facciamo del “vecchio” modello di leadership carismatica, lo mettiamo nel dimenticatoio? No, abbiamo ancora bisogno di leader in grado di ispirare una visione e scatenare entusiasmo o di perseguire performance eccezionali in modo rigoroso (si pensi a Steve Jobs), così come in musica ci sono tanti esempi di leader “titanici” (un nome su tutti: Beethoven), di capolavori scritti in modo matematico (si pensi ad una partitura di Bach) e di esecuzioni di meticolosa precisione (tipicamente da un’orchestra classica di alto livello).

Questi due esempi sembrano però indicare la possibilità, o talvolta anche l’opportunità, di immaginare un tipo di leader diverso, più di ascolto che non di comunicazione, più attento alla qualità delle risorse che al compito da eseguire, più orientato a creare le condizioni affinché le persone possano realizzare i propri talenti che non a monitorare le loro performance: un leader che semina, innaffia, cura e aspetta che il talento e le singole prestazioni fioriscano di conseguenza. Una specie di giardiniere, insomma.

di Roberto Ravagnani

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