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Gennaio 16, 2023

Ascolta, decide e spiega le sue scelte: ecco come lavora un top manager

«Il modello ideale è quello dove c’è libertà di espressione, confronto di idee, autonomia e libertà di azione per creare unità di intenti. Mi piace fare spesso il confronto con il mondo dello sport: c’è un allenatore, c’è una squadra e ci sono degli schemi che decidono di applicare. Ma alla fine in campo scendono i giocatori. Nel mondo del business funziona alla stessa maniera: il manager è l’allenatore, la compagnia definisce un certo numero di schemi e obiettivi, ma in campo ci sono i collaboratori. E durante la partita si va al di là dei ruoli, perché devi interpretare la situazione. Se il terzino si fa dribblare sistematicamente dall’ala avversaria, lo stopper non sta a guardare e pensa “è un problema suo”: interviene. Poi nell’intervallo se serve si cambia qualcosa. A volte, anche i giocatori. Ma in campo questo deve essere l’approccio».

Parola di Antoine Parisi, 54 anni, Group Ceo di Europ Assistance. Di origini italo-francesi, laurea e Mba a Parigi, formazione e carriera globale attestata da espressioni che navigano in scioltezza da una lingua all’altra («le elementari le ho fatte in inglese, le medie in italiano»), un curriculum che lo ha portato a scalare i gradini di Axa, prima di passare (nel 2014) al colosso globale dell’assistenza che ha trasformato da una “bella addormentata” al Gruppo più redditizio a livello mondiale nel suo settore. Parisi è un manager capace di incarnare entrambi i capisaldi di una gestione aziendale: timone saldo, ma orecchie bene aperte, perché le buone idee possono arrivare da chiunque e i problemi si affrontano meglio, se sono tutti coinvolti. 

E in azienda?

Vuol dire che ognuno ha il diritto – anzi, il dovere – di identificare i problemi e di contribuirne alla risoluzione. Per me è una condizione indispensabile. Quello che cerco di sostenere nei miei team è che se un responsabile HR ha qualcosa da dire su temi finance, o viceversa, è il benvenuto. Non solo può, ma deve farlo. A chi lavora con me dico sempre: se vedi un problema e non lo dichiari, dopo non puoi lamentarti. Questo vale per ogni collaboratore, a qualsiasi livello.

E come si traduce nel lavoro di un Ceo?

In quattro azioni, precise: listen,decide, explain, act. Il manager deve anzitutto creare un contesto in cui il collaboratore possa esprimersi, e sentire di avere la sua fiducia. Per questo, la prima cosa è ascoltare. Se non lo fai, le persone esprimono la loro opinione una volta, magari anche due, ma poi basta, perché «tanto non mi ascolta …». Dopo aver ascoltato, decidi. Il manager è anzitutto pagato per “decidere” ed “arbitrare”... Non credo nell’oclocrazia, ma la tua decisione deve essere spiegata. Se non lo è, il collaboratore pensa di non essere stato preso in considerazione. La parte explain è molto importante. Ma è chiaro che l’ultima tappa, decisiva, resta l’act. Non basta ascoltare, decidere e spiegare: le cose bisogna farle. A patto di tenere presente un altro principio.

Quale?

“Solo i morti e gli stupidi non cambiano opinione” diceva J.R.Lowell. Ci sono molti leader che si preoccupano di salvare la faccia. «Ho preso una decisione, se la cambio perdo la mia autorevolezza». Sbagliato. Ogni decisione è presa in un certo contesto, con una serie di informazioni disponibili al momento “X”. Se il contesto e le informazioni cambiano, anche la decisione può cambiare. Se i motivi alla base della decisione sono stati spiegati bene sarai in grado di raccontare  anche quelli del cambiamento. Il problema nasce se non spieghi il perché. Allora lì sì che perdi autorevolezza.

Se cambiano le condizioni, non è un errore: ma in altri casi può esserlo. Un manager può dire facilmente «ho sbagliato»?

Sì. Sbagliare non è un problema: sbagliamo tutti, tutti i giorni. I rigori li sbagliano solo quelli che si prendono le responsabilità di tirarli… Io voglio una squadra dove sono tutti volontari pronti per tirare i rigori. Meglio prendersi la responsabilità e sbagliare che non provare… 

Ma quanto coraggio si può chiedere ai collaboratori? Voglio dire, le due leve di cui parlava – diritto e dovere – vanno insieme: però “diritto” spinge sul fatto che chi lavora ha voglia di esprimersi, desidera dire la sua, mentre “dovere” richiama più una regola, qualcosa che devi fare. Quale dei due aspetti è più efficace?

La cosa più importante è che la gente avverta fiducia, senta che l’ascolto è sincero: non deve esserci un giudizio sull’opinione espressa. Non ci deve essere nessuna sanzione su quanto esposto. Certo, a volte capita di confrontarsi con gente che non osa parlare. Bisogna avere una certa dose di self confidence per essere a proprio agio con questo tipo di approccio. E serve anche un po’ di sense of humour. Non tutti ci riescono. Ma è un patto che io faccio con tutti i nuovi manager che entrano in azienda. Chi è abituato a lavorare in ambienti molto gerarchizzati, quando arriva qui può trovarsi un po’ perso all’inizio, ma ne conosco altri che quando se ne vanno in altri contesti si trovano male… 

Alla fine, mi pare che molte delle cose che stiamo dicendo si possano riassumere nella parola “responsabilizzazione”. È corretto?

Sì. Ma sempre con un po’ di autoironia, senza prendersi troppo sul serio. Ognuno ha il diritto di esprimersi, se la risposta giusta viene dalla base dell’organizzazione è giusta, punto e basta. 

Come si porta questo tipo di mentalità a tutti i livelli dell’azienda? Alla fine, il volto di Europ Assistance, per il cliente, è l’operatore, che, peraltro, per definizione deve risolvergli un problema: se al call center non si respira un po’ dell’aria di cui stiamo parlando, e non si sa prendere l’iniziativa, è dura… Come si fa a spingere fin lì questo atteggiamento? 

La cosa più importante è l’esempio. Questo modo di essere, l’idea che «ognuno di voi ha il diritto-dovere di esprimersi», deve essere trasmessa a tutti, e farlo è compito di ogni manager. Il “come” è la base del lean management, che si compone anzitutto di tre elementi, molto importanti: uno è il daily huddle, il meeting veloce che fai ogni giorno in cui spieghi quali sono le priorità, cosa facciamo oggi e via dicendo. Poi c’è il weekly meeting. E infine c’è il sit in, quando ti siedi fianco a fianco dei collaboratori. Bene: così come chiedi al tuo manager di ascoltare quello che fa l’operatore per supportarlo, lo stesso devi fare tu. Devi stare con lui, partecipare di tanto in tanto al sit in o al daily huddle. Solo in questo modo puoi capire se il manager sta trasmettendo questi valori, e nel caso intervenire. Esempio e vicinanza. 

Ed è possibile anche quando sei Ceo di un gruppo grande come questo?

Il mio ruolo attuale è di essere Ceo di Ceo, quindi normalmente molto distante dal personale delle Centrali. Ma ogni occasione è buona per poter stare vicino agli operatori. Le racconto un episodio appena successo. Qualche sera fa c’è stato un evento in azienda organizzato per dei clienti. Mi sono presentato prima e ne ho approfittato per fare un giro in Centrale Operativa che è attiva 24 ore su 24. Solo facendo così ti accorgi se la cultura che vuoi trasmettere arriva fino a chi parla con il cliente finale. E scopri anche quali siano i veri problemi che le tue persone incontrano nell’operatività.  Mentre ero lì a 4 colleghi è caduto il collegamento Wi-fi. Un problema quando hai un cliente in linea. Ma qualcosa che può capitare se hai importanti livelli di protezione e rigidi protocolli di sicurezza. È bastato parlare con il team della security e il problema è stato risolto.

Quando si parla di cambiamento, come si riesce a combinare la novità con la tradizione? Nel «si è sempre fatto così» c’è una zavorra che rischia di bloccare tutto, ma c’è anche il portato di un patrimonio dell’azienda che non è detto vada buttato via…

Chi arriva deve avere la capacità di abbracciare i punti di forza di un’azienda e di capire dove siano le vere resistenze. Quando sono arrivato in Europ Assistance, era chiaro che nel DNA dell’azienda c’era la propensione ad aiutare a risolvere le crisi: un mindset molto agile – “c’è un problema, lo risolviamo” – che è parte integrante della nostra cultura aziendale.  Era ovvio che andava mantenuto. Però c’era una certa difficoltà nel ragionare a lungo termine, nel fare un piano strategico. Un giorno, scherzando, ho detto al mio team: «Ragazzi, questo progetto lo divido in venti crisi e ve le faccio risolvere una alla volta, senza parlare di quella che viene dopo. Così lo facciamo per bene…». Devi osservare molto e partire da quello che c’è, dai punti di forza esistenti.  

Si torna all’“ascoltare” dell’inizio...

Esatto. Listen.

Ma qual è la dote più importante tra l’ascolto e il coraggio?

Il coraggio senza l’ascolto non conta: non si va da nessuna parte.

Mi dà una definizione di coraggio? 

Il coraggio in un’azienda è la capacità di esprimere un’opinione, o di considerare un problema, anche andando contro il pensiero prevalente. Spesso succede che i manager si mettano a guardare il big boss e aspettino di capire cosa vuole lui. Così, piano piano tutti seguono il vento e si crea un pensiero unico. Il coraggio è la capacità di andare contro il vento. Cercando però di esprimersi nel modo e nel momento giusto, perché essere coraggiosi non vuol dire essere autolesionisti… 

A proposito di cambiamento: in questi due anni abbiamo assistito all’epopea dello smartworking. Lei aveva iniziato molto prima a promuovere il lavoro ibrido in azienda. Perché? E che cosa pensa di quello che stiamo vedendo adesso?

È vero, io nel 2016 ho rinunciato ad avere un ufficio fisso e ho iniziato a fare alcune call da casa. La mia assistente mi guardava stranita, ma io dicevo: «Scusa, la call è con il Brasile, la faccio la sera tardi: perché devo rimanere in ufficio, quando posso farla da casa?». 

E quando è arrivato il Covid? 

Il caos a Bergamo è iniziato nella seconda metà di febbraio 2020. Il 30 gennaio avevo già chiesto al responsabile delle operazioni un piano per far lavorare tutti da casa.

Tutti?

Tutti i dipendenti del Gruppo. Mi rispose con una mail di tre pagine per dirmi che ero pazzo. «Ok, sono folle, ma fammi lo stesso un piano». La verità è che in Italia avevamo tutti operativi da casa già una settimana prima del lockdown. E in 15 giorni abbiamo attivato lo homeworking per il 90% dei 9mila dipendenti dell’epoca. Adesso lo smartworking è dappertutto, ma stiamo ancora valutando il benefici del new way of working.

Perché?

Anzitutto, in molti casi si rischia di accentuare le differenze. Non tutti abbiamo le condizioni giuste per farlo: una casa grande con una stanza adatta o condizioni familiari agevoli. Si è creato un certo classismo, uno squilibrio che comincia a nuocere all’engagement della gente. Inoltre aumenta l’isolamento con il rischio che pian piano si cominci a sgretolare lo spirito di squadra... Bisogna ritrovare una via di mezzo. Oggi alcune grandi ditte americane stanno facendo marcia indietro. Mi rendo conto che occorre trovare un equilibrio. E forse, non è neanche 50 e 50, è più 70% in ufficio  e 30 a casa. Non torneremo mai alla situazione di prima, ma dobbiamo trovare una formula che preveda una maggiore presenza in ufficio, per accrescere lo spirito collaborativo.

Ma alla fine, qual è la dote più importante per affrontare un cambiamento?

Ascoltare, di nuovo. Devi sapere se e dove intervenire. E se non ascolti, non lo capisci. Ascolta, tanto. 

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