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Ottobre 27, 2021

Working davvero smart

In ufficio spazi open o close? L’importante è come sono strutturati Un viaggio alla scoperta di come cambiano i luoghi di lavoro

DI ARIANNA BERTERA

C’era una volta l’open space.
Nato con l'obiettivo di favorire la condivisione e lo scambio di idee, l’open space è stato a lungo considerato come l’ambiente lavorativo migliore per aprire le menti (aprendo gli spazi).
Un approccio al lavoro diverso, oltre che simbolo di dinamismo e modernità, che per anni ha regnato sovrano nell’architettura degli uffici di tutto il mondo, rappresentando nel pensiero comune un motore per creatività e collaborazione.

Complice la pandemia e l’abbandono momentaneo degli spazi di lavoro comuni, alcuni di questi presupposti hanno dato vita a nuove riflessioni sul tema. La giornalista Claire Cain Miller, in un recente articolo pubblicato sul New York Times, ha raccolto le più diffuse e ha cercato di capire se davvero l’open space rappresenti il miglior modo possibile di lavorare: un punto di partenza a cui tornare, una volta superata la situazione attuale, o un passato da abbandonare in favore dello smart working?
Il CEO di Apple Tim Cook, ad esempio, è dell’idea che l’innovazione non sia sempre pianificabile e che per questo sia fondamentale condividere fisicamente il luogo di lavoro, per poter discutere e portare avanti le idee che sorgono quando si è a portata di scrivania. Anche Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan Chase, ritiene che lavorare da casa "non funziona per la generazione spontanea di idee, non funziona per la cultura".
Ethan Bernstein, professore nel dipartimento Organizational Behavior di Harvard, studia da qualche anno l'impatto dei luoghi di lavoro sulla produttività; in un suo studio ha rilevato come gli open space abbiano negli anni portato a una riduzione delle interazioni del 70%. Le persone infatti, per concentrarsi in ambienti del genere, tendono spesso a indossare le cuffie per evitare il rumore e le chiacchere altrui, finendo così per isolarsi al pari che a casa.

Uno spazio, per indurre creatività, non basta che sia open. Deve avere delle caratteristiche che spingano la gente a parlarsi.

Secondo Roberto Ravagnani – partner Key2people – “uno spazio, per indurre creatività, non basta che sia open. Deve avere delle caratteristiche che spingano la gente a parlarsi. Banalmente, più tavoli rotondi e meno tavoli rettangolari, più postazioni che si guardano e meno postazioni in batteria. Non è tema di open o close, ma di come sono strutturati gli spazi”. A questo proposito, altri hanno suggerito di immaginare da capo l'ufficio – come un posto dove le persone possano andare ogni tanto, per incontrarsi o socializzare, mentre il lavoro quotidiano viene fatto in remoto. Dan Spaulding, chief people officer di Zillow, ne è convinto, così come è convinto che la vecchia cultura dell’ufficio moderno abbia contribuito a danneggiare molti a vantaggio di pochi. In ogni caso, a prescindere da studi e opinioni, lo spazio rimane un tema fondamentale in relazione al lavoro e ai nostri relativi comportamenti. La storia dell’architettura degli uffici è l’esempio di come, insieme alla tecnologia, l’unica costante rispetto a questi spazi sia il cambiamento.

Dai primitivi esempi romani fino agli open space e oltre, parecchie “rivoluzioni” hanno sovvertito l’ordine architettonico dei luoghi di lavoro. I primi veri uffici risalgono al XVIII secolo, periodo in cui iniziarono a essere costruiti edifici dedicati. L’Old Admiralty Office venne costruito a Londra nel 1726 proprio per gestire la massa di scartoffie generata dalla Royal Navy e includeva già spazi per le riunioni. Al suo interno, i lavoratori sedevano in file interminabili di scrivanie circondati dagli uffici dei responsabili, che così potevano osservare l’andamento di ognuno.
Questa disposizione seguiva i principi del Taylorismo – una metodologia che cercava di massimizzare l'efficienza industriale, creata dall'ingegnere meccanico Frank Taylor – e rimase molto popolare fino all’inizio del XX secolo.
Con lo sviluppo dei primi grattacieli e di altri grandi edifici commerciali, il posto di lavoro cambiò per diventare un mix meno rigoroso di uffici privati e postazioni di lavoro aperte. È alla fine degli anni ’30 che inizia a diffondersi l’idea che le interazioni spontanee in ufficio avrebbero stimolato il pensiero creativo; il quartier generale della Johnson Wax, progettato da Frank Lloyd Wright, è il primo esempio di open space come lo conosciamo ora.

Da lì, si passò gradualmente a un nuovo approccio noto come Bürolandschaft, letteralmente "paesaggio d'ufficio". In questo caso, i vari ambienti erano divisi attraverso l’uso creativo di partizioni e piante, a seconda delle necessità dei lavoratori.
A soppiantare questo metodo, arrivò l’Open Office: un sistema progettato per garantire al personale un certo grado di privacy, così come la possibilità di personalizzare il proprio ambiente di lavoro senza influenzare gli ambienti dei colleghi, attraverso divisori che definivano lo spazio dei singoli senza però tagliarli fuori dal resto dell’ufficio.
L’introduzione di pareti a definizione delle postazioni di lavoro fu il punto di partenza del processo negli anni ‘80 che portò alla diffusione dei “cubicoli”, minuscoli spazi chiusi, posizionati in serie per risparmiare centimetri; uno spazio di lavoro binario, che permetteva alle persone di lavorare solo alla scrivania o in una sala riunioni.

La pandemia ha determinato il punto di rottura. Un’ulteriore evoluzione, inaspettata […] che ha costretto aziende e lavoratori a ripensare la collaborazione, la flessibilità, la quotidianità sulla base dello smart working.

Dalla Silicon Valley, negli anni 2000, arrivarono i primi segnali che così non poteva funzionare. Negli ultimi vent’anni, una serie di rivoluzioni silenziose nel design e nel pensiero hanno cambiato di nuovo le planimetrie degli uffici, cancellando le vecchie gerarchie di muri e cubicoli per ritornare in pianta stabile alla geografia più democratica dell’open space. Ma oltre all’architettura fisica, è cambiata quella digitale: e-mail, social media, messaggistica istantanea, insieme a videoconferenze e lavagne virtuali, hanno via via reso meno “essenziale” la presenza di un lavoratore in quegli stessi uffici. La pandemia, in questo senso, ha determinato il punto di rottura.
Un’ulteriore evoluzione, inaspettata, che ha cambiato le carte in tavola e ha costretto aziende e lavoratori a ripensare la collaborazione, la flessibilità, la quotidianità sulla base dello smart working. E, insieme, anche il ruolo e l’aspetto dell’ufficio.

Il punto di partenza è immaginare lo smart working non solo come un cambiamento positivo o negativo, ma piuttosto come una possibilità di riorganizzare (in meglio) spazi e lavoro, di pari passo. Di fronte ai primi mesi della pandemia, era difficile riflettere in questo senso, visto il momento di emergenza e la necessità di garantire sia la sicurezza che il proseguo delle attività lavorative, mentre era impossibile spostarsi e incontrarsi; lavorare da casa è stata l’unica possibilità. Nel 2021, grazie ai progressi nel contenimento del virus e all’arrivo dei vaccini, è invece iniziata una vera e propria riflessione sul tema spaziale post pandemia.
In un lungo articolo sul tema apparso sul New Yorker, John Seabrook parte da una domanda fondamentale: a cosa serve l’ufficio?
“È un posto in cui i nuovi arrivati apprendono dai colleghi esperti? Un modo per i capi di tenere d’occhio gli scansafatiche? Una piattaforma di collaborazione? Una fonte di amici e relazioni sociali? Una tregua dalla famiglia? Una ragione per uscire di casa? Perché a quanto pare il lavoro, ossia quello per cui gli uffici erano fatti, è possibile farlo da qualche altra parte.”
L’ufficio è diventato un valore aggiunto. La sua importanza non è scomparsa, ma probabilmente deve essere reinventata per far fronte alle nuove sfide e ai nuovi modelli che la pandemia ha diffuso negli ultimi due anni.

L’ufficio è diventato un valore aggiunto. La sua importanza non è scomparsa, ma probabilmente deve essere reinventata.

I driver di questo processo sono molteplici. Da un lato, c’è la necessità di garantire la sicurezza dei dipendenti, attraverso un adeguato distanziamento e ricambio d’aria, ad esempio; aspetti che non possono essere ignorati, almeno per ora. C’è poi un discorso più pratico di costi ed efficienza: quanto conviene ricostruire da zero un ufficio, quante scrivanie servono e quante persone le utilizzeranno, quante sale riunioni progettare.
Infine, l’aspetto concettuale, che aveva già acceso qualche lampadina anche prima della pandemia rendendo gli uffici sempre più aderenti alla cultura e all'identità delle aziende.
Salesforce e Spotify si stanno orientando verso planimetrie con "quartieri" incentrati sui team, con arredi e spazi per il lavoro individuale e collaborativo, eliminando gran parte delle scrivanie.
Quelle rimaste, seguiranno il principio dell’hot desking: ogni dipendente potrà usufruirne, a prescindere da reparto e livello, rinunciando così ad avere una postazione personale; un esempio di come lo spazio può anche comunicare e riflettere un principio.
Utilizzando sensori, badge e analisi, Okta ha deciso invece di partire dai dati per cambiare i propri spazi, tracciando esattamente come vengono vissuti gli uffici. Ogni dato, in fondo, può dire molto di come un particolare spazio viene sfruttato e può essere utile per ridimensionare, riorganizzare o eliminare alcune soluzioni.

Al posto di file di scrivanie accanto a sale riunioni chiuse, Google sta progettando i "Team Pods", piccoli spazi composti da sedie, scrivanie, lavagne che possono essere riorganizzate nel giro di poche ore per adattarsi alle necessità del momento. Per affrontare il mix di lavoratori da remoto e dall’ufficio, l'azienda sta anche creando delle nuove sale riunioni chiamate Campfire (“falò”), dove i presenti possono sedersi in cerchio, in uno spazio intervallato da grandi display verticali che mostrano i volti delle persone collegate in videoconferenza, per essere sullo stesso piano di quelli fisicamente in loco.
L’ibrido, ad oggi, suona come l’approccio più logico post-pandemia. Molti non torneranno a tempo pieno, altri sceglieranno di rimanere a lavorare magari da un’altra città, ed è quindi probabile che questo mix diventi la norma per i luoghi di lavoro di tutto il mondo.
“Guardando avanti, la sfida vera è l’ibrido: quando non saremo tutti quanti in presenza, né tutti quanti da casa” spiega Andrea Massaccesi, Senior Consultant per Key2people. “Dipenderà dal modello, ma ci troveremo in una realtà in cui non sapremo più se un collega quel giorno sarà in ufficio o meno. Per questo motivo, dovremmo essere pronti (a livello di spazi di lavoro) a gestire questa ibridazione.”

Il vero problema che gli spazi dovranno affrontare è la gestione dell’innovazione

La tecnologia, in questo senso, giocherà un ruolo chiave per mantenere quei confini fondamentali a preservare la cultura aziendale, la collaborazione e la produttività, anche senza essere nella stessa stanza. Videoconferenze sempre attive, spazi di incontro fisici e a distanza senza soluzione di continuità (come le lavagne virtuali), modelli di collaborazione e lavoro asincroni diventeranno (o sono già diventati) lo standard. Guardando anche al passato, a livello di architettura fisica o digitale dello spazio di lavoro, non esiste la soluzione perfetta. Oggi però esistono i presupposti per realizzare delle combinazioni molto vicine a questo ideale.

“Il vero problema che gli spazi dovranno affrontare è la gestione dell’innovazione – sostiene ancora Roberto Ravagnani di Key2people – perché la scintilla della creatività è più frequente quando le persone lavorano fisicamente insieme, spesso in modo non pianificato. Invece la remotizzazione o il lavoro ibrido rendono questa spontaneità più difficile e a soffrirne alla fine è la capacità di innovazione aziendale e quindi la sua stessa competitività. Paradossalmente, la gestione della creatività non può passare per un “liberi tutti” in cui ognuno si presenta in ufficio quando e dove desidera, va organizzata: chi sono le persone che possono produrre innovazione? Quando possono essere fisicamente insieme? Quale spazio rende la loro interazione più spontanea e creativa? Come diceva un grande jazzista: “L’improvvisazione non si improvvisa”. L’organizzazione degli spazi e anche dei tempi deve facilitare l’incontro “casuale” delle persone giuste, al momento giusto, nel modo giusto.”

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